Consapevolezza del gesto e indagine interiore

Questo articolo scritto dall’attrice Marzia Gambardella espone molto bene, partendo dall’esperienza di recitazione, il concetto di “consapevolezza gestuale”, intesa come strumento di indagine e osservazione degli stati psicologici ed emozionali, nostri e degli altri. Lo pubblichiamo con piacere perché, oltre ad essere interessante di per sé, vogliamo suggerirlo come un invito per tutti ad osservare se stessi a partire dal punto di vista gestuale. Cosa molto utile per l’indagine interiore, considerato che il corpo lo abbiamo sempre con noi. Consapevolezza,consapevolezza, consapevolezza: il grande segreto.
Buona lettura.

Andrea Di Terlizzi.

Il termine attore deriva dal verbo latino agĕre: agire, porre in azione.
In italiano l’arte dell’attore viene definita dal termine recitazione.
L’attore dunque è colui che recita.
Questa definizione, per quanto linguisticamente corretta, mi pare alquanto fuorviante: dall’attore inteso come ‘colui che pone in azione’ si passa a ‘colui che re-cita’, che ripete.
Incasellato in questa definizione, il potere creativo racchiuso nel termine attore sembra venir drasticamente ridotto alla ripetizione di un’azione. Non solo, nel linguaggio comune il termine recitare ha un’accezione piuttosto negativa: quando diciamo di qualcuno che sta recitando, generalmente vogliamo esprimere il fatto che non stia dicendo la verità.

Il termine “recitazione” mi sembra allontanarsi non poco dal senso espresso da l’arte del porre in azione” propria dell’attore. In molte altre lingue viene usato il termine giocare (jouer, to play) a mio avviso davvero più pertinente: un gioco prevede un contesto, delle regole, uno scopo e dei giocatori che agiscono in modo consapevole per condurre al meglio il loro gioco.
Giocare bene richiede consapevolezza, attenzione, prontezza e continue scelte. Giocare uno spettacolo ha le stesse implicazioni.

SEMPLICAMENTE CAMMINARE (esperienza)
Il lavoro dell’attore passa (o dovrebbe passare) prima di tutto da un lavoro di consapevolezza.
Nei corsi di teatro si parte (o si dovrebbe partire) dal quello che viene definito lavoro sul neutro: un necessario lavoro di spoliazione per cercare una neutralità del corpo e dello stato emotivo-mentale che lo mette in azione.
Cosa vuol dire?
Vuol dire che malgrado la percezione che abbiamo di noi stessi molto spesso, per non dire quasi sempre, dentro ogni azione tendiamo a portare una serie davvero considerevole di gesti inconsapevoli e inutili all’azione stessa; gesti fuorvianti che distraggono e tolgono forza all’azione.
L’allievo attore alle prime armi non si rende conto del continuo susseguirsi di gesti parassiti che porta dentro qualsiasi azione gli venga chiesto di svolgere.

La mia prima lezione di teatro risale a parecchi anni fa. Me la ricordo perfettamente – o quasi: colui che divenne il mio primo insegnante iniziò il corso dicendo: «Camminate», e noi iniziammo a camminare.
Passò forse un minuto e il suo affascinante vocione intervenne: «No, non state camminando. Vi ho chiesto semplicemente di camminare».
Urca, e cosa dovrei fare? Sto camminando… ok, proviamo a tenere la schiena più dritta, appoggiare bene i piedi, magari guardare gli altri… e di nuovo il vocione: «No. Non state camminando. Vi ho chiesto semplicemente di camminare».
Santa pace! Ma che vuole?
Forse devo guardare dove metto i piedi? E magari anche ricordarmi di respirare ogni tanto? Si, forse è questo: schiena dritta, respira, guarda dove metti i… «No! Non state camminando! Vi ho chiesto semplicemente di camminare!».

Incredulità e imbarazzo generale iniziavano a essere palpabili nella sala.
Non ci si conosceva tra di noi, era una lezione di prova d’inizio anno. Eravamo imbarazzati, continuavamo a deambulare in quella stanza con un grosso punto interrogativo sulle nostre teste.
Non capivo assolutamente cosa diavolo volesse che facessimo.

Andò avanti così per un bel po’ e poi… ricordo che aprii gli occhi, qualcuno mi teneva su le gambe mentre una serie di sconosciute facce attonite mi guardavano dall’alto: ero svenuta. Credo che il mio cervello fosse andato in tilt.
Ad oggi capisco bene il mio carissimo primo insegnante: stavamo facendo di tutto fuorché semplicemente camminare.

Sicuramente i corpi si spostavano nello spazio mettendo progressivamente un piede davanti all’altro, ma l’azione effettiva che quella decina di esseri umani stava compiendo in quella sala consisteva essenzialmente nel malcelare imbarazzo e inquietudine in un susseguirsi di gesti parassiti: aggiusta la maglietta, passa una mano nei capelli, piccola smorfia, muovi la spalla, grattatina sotto al mento, di nuovo la maglietta, un sorriso imbarazzato, inumidisci le labbra, capelli dietro le orecchie, aggiusta gli occhiali, tira su i pantaloni, piccolo movimento delle dita, sistema il braccialetto, rapido movimento del polso per girare l’orologio, abbassa gli occhi con nonchalance, grattatina veloce del naso, rigira l’anello tra le dita, piccola smorfia, capelli, pantaloni, naso, maglietta, orologio, occhiali, braccialetto… Un inferno senza fine!
Un moto disordinato e perpetuo in cui il camminare era una sorta di sbiadita decorazione sullo sfondo.

È da una ventina di anni che insegno teatro e posso dire che tutti gli allievi attori, chi più chi meno, sono così. Ora, essendo gli aspiranti attori perlopiù esseri umani comuni, vien proprio da pensare che questa non sia la sola categoria vittima di gesti parassiti che tolgono forza alle loro azioni.
Incredibile ma vero: perlopiù viviamo così. Basta guardarsi attorno, basta osservare noi stessi.

Sono tanti anni che non tengo corsi per principianti, ma spesso, anche se in misura diversa e con notevoli abilità di camouflage, i gesti parassiti son sempre lì, anche tra i professionisti; son lì a togliere efficacia all’azione e a distrarre l’occhio di chi osserva.
Son lì anche adesso, mentre scrivo: credo sia la decima volta in poche righe che aggiusto il mio ciuffo. Sorrido: che io voglia pettinarmi i pensieri?

Anche fuori dal palco mi rendo conto che, se non siamo vigli, diventiamo abilissimi a fregare noi stessi boicottando la nostra forza, la nostra efficacia all’interno di un’azione. E se restiamo vigili a volte, come poche righe fa, possiamo anche regalarci un sorriso scoprendo qualcosa di noi.
Una frase di Jaques Lecoq fa capolino: “Meno si difende, meno cerca di recitare un personaggio, più l’attore si lascia sorprendere dalle proprie debolezze, più il suo clown appare con evidenza. […] Più è se stesso, colto in delitto di flagrante debolezza, più fa ridere”.
E sorridiamo.

Ovviamente ciò di cui parlo è un lavoro funzionale all’arte dell’attore: su un palco io devo essere in grado di scegliere ogni piccolo gesto per accompagnare e dare forza allo svolgimento dell’azione.
E se mi prude il naso?
Ovviamente lo gratterò, ma sarà un gesto consapevole all’interno dell’azione che sto compiendo e non un gesto parassita inconsapevole che si attacca all’azione senza la mia autorizzazione.
I gesti parassiti normalmente celano altro, ad esempio, come nei dieci deambulanti di cui sopra, imbarazzo. Ma se io non identifico quei gesti, se non li porto allo scoperto diventando consapevole e quindi libera di scegliere se compierli oppure no, finirà che tutti i personaggi che giocherò, da Clitemnestra a Ofelia, avranno un costante prurito al naso.

Ecco dunque il primo passo (meglio se senza svenimenti) del cammino dell’attore che non vuole recitare: rendersi conto di cosa realmente fa, al di là di quello che pensa di fare.
“Se so quello che faccio, posso fare quello che voglio”, una frase di Moshé Feldenkrais che spesso mi è stata ripetuta. Una frase importante per un attore.
Il primo passo dunque è un lavoro di ascolto e osservazione per individuare tutti quei piccoli gesti inconsapevoli che compiamo mentre noi pensiamo di star semplicemente camminando.

L’arte del porre in azione chiede consapevolezza, altrimenti si rischia di continuare a citare e re-citare gesti parassiti che pongono in azione la loro storia, senza permettere a noi di giocare.

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