Da giovane sono stato colpito da uno strano evento. Nessuno mi ha mai spiegato di cosa si trattasse. Nessun dottore ci ha capito nulla. Di fatto, nel giro di un’ora, tutta la pelle del corpo si è sollevata di un centimetro o più. Era simile a una reazione allergica (forse era un’allergia alla vita).
Entro tre ore ero ridotto a letto. Il volto era così gonfio che non potevo aprire gli occhi e non potevo parlare a causa della tumefazione delle labbra. Tutto il corpo era percorso da un prurito irresistibile e internamente provavo brividi glaciali. Alla superficie e tutt’attorno, un calore soffocante e insopportabile. Respiravo a fatica e il cuore batteva all’impazzata.
Ricordo un momento, in particolare, in cui ero rimasto solo nella stanza, e il battito cardiaco crebbe enormemente. Sentivo il cuore in gola e nelle tempie e poi, iniziò un’aritmia tremenda. Il cuore si fermava e riprendeva, con un ritmo folle. Quello fu il momento in cui sentii con certezza che stavo per morire. Non è un modo di dire, ero davvero convinto che stavo per andarmene.
Fu un momento strano, speciale, che ricordo benissimo. Non avevo nessuna paura e nessun attaccamento. Non provavo rimpianti, benché fossi molto giovane, ma solo il dispiacere di non poter salutare e tranquillizzare la ragazza che amavo. Ricordo che mi preoccupai del fatto che mia madre, tornando nella stanza, avrebbe subito il tremendo shock di trovarmi morto.
Non so dire perché non avessi paura. Non esisteva nessuna convinzione personale sul post mortem; ero semplicemente tranquillo per me e preoccupato per chi rimaneva. Poi, lentamente, il battito cardiaco si normalizzò; ripresi a sentire il flusso del respiro e compresi che quello non era il mio memento. Fui sollevato per i miei genitori e per la mia ragazza e null’altro. Ero tranquillo. Gonfio e penso molto buffo da vedere, ma estremamente tranquillo.
Negli anni ho incrociato altre volte quello che definiamo “morte”, non sempre in modo piacevole. Ho vissuto il suicidio di due amici e, come per tanti, la morte di parenti e conoscenti. Di fronte alla sofferenza degli altri per un lutto sono sempre rimasto prevalentemente in silenzio. Ho sempre trovato irrispettoso cercare di infondere conforto a chi rimane, con vuote parole sulla fede e credenze su ciò che esiste dopo la morte. Difficilmente chi rimane soffre per chi se ne è andato; di solito soffre per se stesso, per la perdita.
La morte è una cosa strana. Un vero tabù, soprattutto per l’uomo moderno. Abbiamo perso aderenza con questo evento e ciò, a mio avviso, non è un bene. Personalmente ho le mie certezze su questo passaggio e su ciò che accade in seguito. Le ho per esperienza e conoscenza, ma parlarne è del tutto inutile.
Non esiste una differenza enorme tra la nascita e la morte; si tratta di due eventi straordinari, che hanno in comune una zona inesplorata e ignota: quest’area è ciò che esiste al di là di quanto i nostri sensi percepiscono, nello spazio di coscienza che definiamo “vita”.
Nel corso della nostra esistenza si verificano molti fenomeni simili alla “morte”, anche se meno definitivi. Ci addormentiamo ogni notte perdendo coscienza del luogo in cui abbiamo vissuto e svegliandoci il giorno dopo dimentichiamo gran parte di quello che abbiamo detto, fatto e sentito il giorno prima.
Perdiamo il contatto con persone che riteniamo di amare e perfino quotidianamente, dimentichiamo a tratti chi abbiamo accanto, assorbiti da mille cose. È vero, sono episodi momentanei che durano minuti o qualche ora; ma, a ben pensarci, sono continue perdite, dimenticanze, scomparse, assenze di coscienza.
La morte è solo più precisa, assoluta, definitiva in uno spazio di esistenza; ma solo per lo spazio di esistenza in cui ci muoviamo. Noi moriamo proporzionalmente a come abbiamo vissuto e sperimentiamo la perdita di chi amiamo in modo proporzionale a come abbiamo amato.
Secondo me le persone confondono troppo spesso l’amore col bisogno personale, il disperato bisogno di sentirsi amati e abbracciati. Non voglio dire che il vero amore sia solo in una direzione, ma sicuramente il “dono” definisce maggiormente l’amore, piuttosto che il bisogno di ricevere.
Così, la sofferenza di una perdita è proporzionale a quanto abbiamo amato davvero. Più abbiamo amato la libertà di chi ci è stato caro, il suo pensiero e la sua vita, meno soffriamo quando dobbiamo abbandonare qualcuno che per noi ha rappresentato un momento importante della nostra esistenza.
Il solo modo per affrontare senza paura e senza dolore l’evento dolce o traumatico della morte è quello di affrontare la vita senza fuggire di fronte a ciò che non comprendiamo e non capiamo. Vivere interamente, pienamente e onestamente, muta la percezione di quell’evento finale che non è altro che un tassello di un percorso meraviglioso e misterioso.
Quando viviamo attaccati morbosamente ad ogni più piccola sicurezza, cercando costantemente porti sicuri in cui ormeggiare, non possiamo che essere terrorizzati dall’unico momento in cui non si può far altro che restare a guardare, perché in quel momento preciso non c’è proprio nulla che rappresenti un porto sicuro, se non una coscienza calma, lucida e consapevole di aver vissuto accettando l’esistenza come una magia.
Questo vale anche per chi resta e non solo per chi se ne va; anche se, rimanere, è più difficile che andarsene. Occorre più coraggio e certamente più amore.
Si dovrebbe pensare alla morte come alla partenza per un viaggio. Comprendo che per le persone dedicarsi a questi pensieri non è molto edificante; si tende ad allontanare l’immagine di qualcosa che percepiamo come definitivo e oscuro (nel senso di ignoto).
Io sono stato a lungo e spesso su questi pensieri. Non ho mai avuto timore del passaggio e queste riflessioni sono sempre state (e sono ancor oggi) un modo intimo e caldo per sentire maggiormente la vita e assorbire da coloro che ho accanto tutto quello che la consapevolezza mi concede.
Da ragazzo ho studiato molto la tradizione del buddhismo tibetano e sono sempre stato colpito dalla vicinanza che i tibetani hanno con la morte; almeno, per quanto concerne la loro cultura spirituale e gli esponenti della medesima. Ho passato ore a praticare meditazione nei cimiteri, che ho sempre trovato luoghi dolci e tranquilli.
Parallelamente, per la mia aderenza al mondo delle arti marziali, ho ugualmente riflettuto sulla particolare condizione degli antichi guerrieri del passato, quando ogni giorno poteva essere l’ultimo. Come vivevano la sera precedente ad una battaglia? Cosa provavano andando a letto con la loro donna e sapendo che poteva essere l’ultima volta? Come consumavano una cena e come vivevano la presenza degli amici e dei compagni di battaglia?
Probabilmente con una grande inconsapevolezza, perché l’uomo si abitua ad ogni cosa e la vicinanza alla morte non rende automaticamente più saggi. Ancor meno nelle guerre moderne, dove tutto è spaventosamente rapido e terribilmente al di sopra delle possibilità umane, con aspettative di vita ridottissime che solo in minima parte dipendono dalle abilità personali.
L’immagine della morte mi ha sempre accompagnato e credo sia qualcosa di poco usuale. Pensare a tutti gli aspetti di una dipartita per me equivale a pensare alla vita. Più penso alla morte, più avverto la dolcezza della vita; eppure, per ciò che conosco, sento e ho sperimentato, per me la morte non è affatto il nulla, ma l’inizio di un’altra avventura piena di misteri, che dopo un lungo o breve percorso riconduce ancora a questo dolce e colorato pianeta.
La morte per me non è dunque il contraltare dell’esistenza terrena. Non la sento come il buio rispetto alla luce della vita; anzi, semmai è il contrario. La sento piuttosto in modo simile ad una partenza per un viaggio dall’incerta durata, nel quale temporaneamente lascerò le persone che amo e i luoghi che ho amato, per amare altri luoghi e altre persone (o per ritrovarli).
Più penso alla morte come viaggio, e più sento il bisogno di amare, perché l’amore è il suggello certo ed eterno per ritrovare coloro che ho accolto nel cuore. Non abbandonare nessuno di coloro che amo è l’unico vero pensiero che in me si collega al passaggio verso altri mondi. D’altra parte, anche solo venire su questo pianeta, in qualche misura rappresenta l’abbandonare momentaneamente qualcuno o qualcosa (almeno con la parte di me che è consapevole su questo piano).
In ultima analisi ecco ciò verso cui mi apre sempre più l’immagine meravigliosa e potente della morte: un eterno viaggio in tutti i luoghi di questo universo, per riabbracciare continuamente coloro che fanno parte di una grande e immensa famiglia, con loro divertendomi, giocando, amando e parlando dei segreti di questi mondi misteriosi.
Vorrei che in questo modo pensassero coloro che amo, il giorno in cui me ne andrò; sentendosi una meravigliosa famiglia, ricordando che quando andranno a loro volta riabbracceranno altrove qualcuno che li attendeva, in un processo dolcissimo che ha come unico scopo l’Amore e la guida di figli, figlie, fratelli e sorelle minori e maggiori, sparsi ovunque nel cielo stellato.