Il nome “Bohr” evoca solitamente uno dei padri della meccanica quantistica, il famoso fisico danese Niels Bohr, che tra le altre cose enunciò il cosiddetto principio di complementarità, sottolineando la presenza di aspetti duali nel nostro modo di interagire e osservare il reale. Pochi sanno però che il papà di Niels, Christian, era un fisiologo, e che nel 1904 scoprì un importante effetto alla base della fisiologia del respiro, che oggi porta il suo nome, mettendo in evidenza una relazione per certi versi paradossale tra ventilazione polmonare e ossigenazione dell’organismo. I praticanti di tecniche respiratorie hanno sicuramente interesse a conoscere l’effetto Bohr, e altri effetti ad esso collegati, ma mi sono accorto che raramente è il caso, anche tra i praticanti esperti, da cui lo stimolo di scrivere questa mia nota. Premetto di non essere un fisiologo. Ciò che vado a esporre è quindi da prendere in considerazione più che altro in termini indicativi, come invito ad approfondire il tema decisamente complesso della respirazione umana.
Più di trent’anni fa, mi avvicinai a una pratica oggi nota con il termine di rebirthing, che utilizza una respirazione intensa, senza pause, simile alla respirazione circolare dello Yoga, di cui troviamo traccia in testi come la Bhagavad Gita e il Vigyana Bhairava Tantra, e in tradizioni come quella Sufi. È una somiglianza solo parziale però, in quanto la respirazione circolare yogica (poco nota anche tra i praticanti di Yoga) è un procedimento attivo, perfettamente bilanciato e controllato, sia per la durata e l’uniformità del respiro, che per la gestione del passaggio (esplosivo) tra i due atti respiratori, con l’aria che passa unicamente attraverso il naso, usando la tecnica dell’Ujjayi, mentre la respirazione (detta anch’essa “circolare”) del rebirthing avviene solitamente in modo irregolare e piuttosto sbilanciato, senza un ritmo prestabilito, prevalentemente attraverso la bocca e con un atteggiamento del praticante prevalentemente passivo, il che può comportare un possibile abbassamento delle sue difese energetiche naturali, quindi anche un’apertura a influenze “sottili” negative (naturalmente, questo non è un problema se l’ambiente in cui si pratica è “energeticamente pulito”, ma quanti sono gli operatori in gradi di garantirlo?).
A prescindere da queste importanti differenze (non è comunque questo il tema del mio articolo), sia la respirazione circolare molto ben strutturata dello Yoga, che la respirazione decisamente più scombinata del rebirthing, promuovono una condizione detta di iperventilazione, nel corso della quale il praticante aumenta notevolmente la frequenza e intensità dei suoi atti respiratori, pur mantenendo il corpo a riposo. Più esattamente, con il termine di iperventilazione si intende una condizione dove si respira più del necessario, tenuto conto delle richieste metaboliche del momento. Ciò innesca tutta una serie di sintomi fisici, che possono manifestarsi per tempi più o meno lunghi, tra cui, solo per citarne alcuni: rigidità e contrazioni muscolari (tetanie, mioclonie), intensi formicolii, alterazione della sensibilità degli arti (parestesia), porzioni del corpo percepibili come gonfi, dilatati, oppure compressi (disestesie), aritmie cardiache, cui vanno ad aggiungersi effetti sul piano cognitivo, ad esempio stati di vertigine, stordimento, confusione mentale, a volte angoscia e panico, oppure brevi vuoti di coscienza, ma anche profondi sblocchi energetici ed emozionali, condizioni di lucidità aumentata, di benessere, di coscienza espansa, stati extracorporei, ecc.
Ci sarebbe molto da dire su tutti questi fenomeni, sul loro grado di permanenza e sulla loro modulazione in base allo stato psicofisico del praticante e alla sua esperienza. Apro qui solo una breve parentesi per osservare che tutto ciò che percepiamo con chiarezza viene solitamente attribuito a fenomeni che si espletano sul piano “fisico-denso”. Ma non sempre è così. Molti dei fenomeni che percepiamo avvengono a cavallo tra il “denso” e il “sottile” e non è sempre facile distinguere quali percezioni provengono da quale piano. Il respiro, tra l’altro, costituisce una delle forme più “sottili” di mobilizzazione energetica che siamo in grado di controllare con il nostro soma. In tal senso, la respirazione fisiologica costituisce una sorta di “ultima frontiera” ancora agevolmente percepibile ed agibile attraverso i nostri sensi ordinari, oltre la quale si aprono le dimensioni di natura extrafisica (la cui esistenza darò qui per scontata), dominio di manifestazione dei nostri veicoli coscienziali più “sottili” (para-materiali). Se ad esempio percepiamo un’intensa vibrazione propagarsi su e giù attraverso il corpo, questa potrebbe sì originare da alterazioni del sistema nervoso e/o circolatorio, ma anche trovare la sua causa in variazioni energetiche aventi luogo nel cosiddetto doppio eterico, la matrice di collegamento tra il corpo fisico e il restante della nostra “macchina olosomatica”. In altre parole, le tecniche respiratorie, soprattutto se praticate con piena presenza e consapevolezza, permettono non solo di agire sulla biologia (in particolare sul cervello e sul sistema nervoso), ma altresì all’interfaccia tra il fisico e l’extrafisico, lavorando su quelle energie coscienziali (indicate con il termine prana nello Yoga) che sono alla base della nostra manifestazione.
Tenendo conto di quanto sopra, è sicuramente importante sapere cosa accade sul piano fisico quando agiamo tramite determinate tecniche, nella fattispecie respiratorie, non solo per meglio comprendere le ragioni alla base di tali procedimenti, e poi interpretare correttamente i fenomeni che sperimentiamo, ma anche per meglio demarcare le percezioni di origine fisica da quelle di origine extrafisica. Ora, quando anni fa praticai per la prima volta il reberthing, e negli anni a seguire altre tecniche di respirazione intensificata, come la summenzionata respirazione circolare dello Yoga, o il kapalabhati pranayama, la spiegazione che mi diedi, e che spesso ricevevo, è che molti dei fenomeni fisici che potevo sperimentare nel corso della pratica erano il risultato di un processo di iperossigenazione. Quest’idea trovava conforto anche nell’osservazione che al termine di un ciclo di respirazioni era possibile sperimentare una sospensione naturale e prolungata del respiro, cioè un’assenza di bisogno di respirare che poteva protrarsi anche per numerosi minuti. Perché accadeva? La risposta che mi davo a quei tempi (e che ingenuamente mi sono dato per parecchio tempo) è che la respirazione circolare, con la sua intensità, andava a caricare profondamente di ossigeno tutto l’organismo, ben oltre ciò che si poteva ottenere con una respirazione naturale, da cui la possibilità di poi sospendere il respiro a lungo senza fatica.
Nulla più sbagliato. Infatti, già con il respiro naturale il nostro sangue e i nostri organi sono ossigenati in modo pressoché massimale. Questo perché il corretto funzionamento del nostro corpo richiede che il tasso di globuli rossi saturi di ossigeno si situi tra il 95% e il 99%. Questa saturazione avviene per mezzo dell’emoglobina, la metalloproteina di colore rosso contenuta nelle cellule ematiche e responsabile, per l’appunto, del trasporto e distribuzione dell’ossigeno molecolare (O2) ai tessuti che lo necessitano (l’ossigeno viene raccolto negli alveoli polmonari e veicolato tramite il flusso arterioso). È importante precisare che la quantità di ossigeno disciolto nel plasma sanguigno rappresenta solo il 2% circa dell’ossigeno totale contenuto nel nostro sangue, che per più del 98% viene trasportato dall’emoglobina. È proprio questo infatti il ruolo dell’emoglobina: aumentare di quasi un fattore 100 la capacità del liquido sanguigno di veicolare ossigeno. Quindi, respirare più intensamente non permette di aumentare in modo significativo il tasso complessivo di ossigenazione del nostro sangue, essendo tale tasso governato prevalentemente dalla saturazione dei globuli rossi ed essendo questa già vicina al 100% in condizioni standard di respirazione.
Ma c’è di più. Il bisogno percepito di respirare non è determinato da un abbassamento del livello di ossigeno nel sangue, come intuitivamente ci si aspetterebbe, ma in massima parte dal livello di anidride carbonica (CO2). Il livello di ossigeno e altri fattori, quali lo stato emotivo di una persona, entrano certamente in parte in gioco, ma è il livello di anidride carbonica a controllare in massima parte la dinamica respiratoria. Ricordiamo che la respirazione, sul piano fisico, promuove essenzialmente uno scambio tra due importanti gas: l’ossigeno e l’anidride carbonica (detta anche biossido di carbonio). Il primo viene immesso nell’organismo tramite l’inspirazione, e portato dal sistema circolatorio verso ogni cellula dell’organismo, scambiandolo poi con il secondo, che è uno scarto dell’attività metabolica cellulare e che viene eliminato tramite l’espirazione. Ora, come dicevo, il centro respiratorio cerebrale regola il ritmo respiratorio sulla base di numerosi meccanismi, ma il più importante è di natura chimica e ha a che fare con la misurazione del tasso di biossido di carbonio (CO2) nel sangue. Più aumenta l’intensità e la frequenza del respiro, maggiore sarà l’eliminazione di anidride carbonica dal sangue. Questa “decarbonizzazione” farà sì che il centro del respiro, rilevando una ridotta presenza di CO2 nel sangue, non andrà a promuovere quelle contrazioni muscolari e/o diaframmatiche che solitamente percepiamo quando avvertiamo “fame d’aria” e che vanno a innescare nuovamente la respirazione.
Questo spiega perché l’iperventilazione è molto pericolosa da praticare prima di un’immersione. Infatti, andando a ritardare il raggiungimento di quel livello di soglia di CO2 che informa il sistema nervoso centrale della necessità di respirare, ritarda anche la nostra percezione di tale bisogno, tanto che un apneista può trovarsi nella condizione in cui, senza saperlo, i suoi livelli di ossigeno sono scesi sotto quel break-point che porta alla cosiddetta sincope ipossica, cioè a una perdita di coscienza (transitoria) dovuta a mancanza di ossigeno nel cervello. Questa è solitamente fatale se avviene quando l’apneista è ancora sott’acqua. D’altra parte, in caso di sospensione prolungata del respiro dopo un ciclo di respirazione circolare, se il/la praticante si trova comodamente seduto/a o sdraiato/a, l’eventuale manifestarsi di un blackout non rappresenterà alcun pericolo. Infatti, il nostro respiro si esplica anche senza la necessità di un controllo cosciente, quindi, in caso di svenimento, questo riprenderà il suo corso in modo del tutto automatico.
Veniamo ora al punto chiave di questa mia nota sulla fisiologia del respiro. Cosa accade quando iperventiliamo? Abbiamo appena visto che il livello di CO2 nel sangue si abbassa in modo significativo e che il tasso di ossigenazione, invece, non aumenta in modo significativo. In aggiunta a questo, accade qualcosa di abbastanza sorprendente: l’iperventilazione, anziché produrre una condizione di iperossigenazione cellulare (come erroneamente pensavo anni fa), produce il suo esatto opposto, una condizione di ipossiemia (diminuzione dell’ossigeno disponibile) e questo per le ragioni che vado ora a illustrare. Innanzitutto, un’evacuazione massiccia dell’anidride carbonica disciolta nel sangue ne produce l’alcalinizzazione, cioè il pH del sangue aumenta, una condizione detta di alcalosi respiratoria. La CO2 essendo vasodilatatrice, una riduzione della sua concentrazione (detta ipocapnia) produce vasocostrizione, quindi una riduzione del flusso di sangue ai diversi tessuti, tra cui il tessuto celebrale, il che spiega in parte gli stati confusionali, le vertigini, e gli altri sintomi di cui ho accennato. L’alcalosi respiratoria è causa anche di un’alterazione dell’equilibrio elettrolitico del sangue. Senza entrare nei dettagli, ciò porta a una temporanea riduzione della concentrazione di calcio (ipocalcemia) e dacché il calcio ha un ruolo determinante nella trasmissione degli impulsi del sistema nervoso, ciò produce una maggiore eccitabilità di neuroni e fibre muscolari, da cui quei sintomi quali: formicolii, parestesie, rigidità muscolare, spasmi, mioclonie, ecc.
Ma non è tutto. A questo va ad aggiungersi il cosiddetto effetto Bohr, di cui ho accennato all’inizio dell’articolo. Quello che Christian Bohr (e colleghi) scoprì all’inizio del secolo scorso è che l’efficienza del rilascio di ossigeno da parte delle cellule del sangue varia a seconda del suo pH. In altre parole, una cosa è avere il sangue carico di ossigeno e un’altra cosa è renderlo disponibile agli organi e tessuti del corpo. Come abbiamo visto, un primo effetto dell’iperventilazione è quello della vasocostrizione indotta dall’aumento del pH (alcalosi). Ma un secondo effetto, non meno importante (quello scoperto da Bohr) è che l’aumento del pH sanguigno inibisce il rilascio di ossigeno da parte dell’emoglobina. Il sangue potrà allora anche essere carico di ossigeno, ma lo cederà ai diversi organi con estrema difficoltà. L’utilità di questo effetto è facile da capire. Quando facciamo un’attività fisica, vi è ina maggiore richiesta di ossigeno a livello cellulare. Questa stessa attività produrrà degli scarti metabolici, come una maggiore produzione di CO2 (e di acido lattico), che andando ad acidificare il sangue aumenteranno il rilascio di ossigeno da parte dell’emoglobina. Nella situazione di chi pratica una respirazione iperventilata non c’è però questa maggiore produzione di sostanze in grado di alterare il pH del sangue, che rimarrà pertanto alcalino, quindi l’emoglobina avrà difficoltà a cedere il suo ossigeno, che verrà solo minimamente trasferito ai diversi tessuti.
Morale della storia, quando si respira con maggiore intensità e frequenza, senza che questo risulti da un’accresciuta attività fisica (iperventilazione), si verifica esattamente l’opposto di quanto un tempo, ingenuamente, ritenevo accadesse: si verifica una diminuzione anziché un aumento dell’ossigeno effettivamente disponibile nel sangue e una concomitante riduzione del flusso sanguigno, per effetto della vasocostrizione, quindi una minore ossigenazione in generale dei diversi tessuti, incluso il cervello. In altre parole, quando si pratica una “respirazione aumentata” come nel respiro circolare dello Yoga, si ottiene uno stato temporaneo di ipossia, cioè di ipo-ossigenazione, che tra le altre cose comporterà un abbassamento generale dell’attività cerebrale.
Dovrei a questo punto parlare di tutta una serie di altri fenomeni indotti dalle variazioni chimiche del sangue, come il rilascio di determinati neurotrasmettitori che favoriscono la produzione di particolari mediatori, che a loro volta agiscono a diversi livelli nel cervello, permettendo il rilascio di endorfine, cioè di “oppioidi endogeni” dalle numerose funzioni, come il controllo del dolore, la gestione dello stress, la sponsorizzazione di stati di benessere, di euforia, ecc. Ma il punto cui desideravo arrivare con questa mia nota è un altro. Da un lato, volevo semplicemente correggere un errore insidioso, e a quanto pare diffuso, che consiste nel pensare che respirando di più ci si possa facilmente “ubriacare di ossigeno”, quando invece accade esattamente l’opposto (vedi a proposito anche i lavori del medico ucraino Konstantin Pavlovich Buteyko). Dall’altro lato, volevo portare attenzione su un aspetto che è importante da comprendere, e approfondire, per chi utilizza i pranayama per facilitare l’accesso a stati “aumentati” di coscienza.
Semplificando, possiamo dire che per accedere a degli stati di coscienza non-ordinari è necessario attivare un’attività mentale di tipo non-ordinario, e che per farlo una strategia naturale consiste nell’abbassare il volume dell’attività mentale ordinaria promossa dai processi elettrochimici del nostro cervello fisico; attività nella quale ci troviamo spesso profondamente identificati. In altre parole, bisogna mettere il cervello il più possibile a riposo, cercando al contempo di non mettere totalmente a risposo la nostra mente (supportata allora da processi aventi luogo in strutture paracerebrali più “sottili”). Ora, per ridurre temporaneamente l’attività cerebrale, usando il respiro, ci sono essenzialmente due strade percorribili: quella dell’ipossia e quella dell’ipercapnia. Per promuovere l’ipossia (ovviamente solo temporanea), come abbiamo visto è necessario, paradossalmente, aumentare la nostra ventilazione polmonare. Per ottenere l’ipercapnia, che corrisponde invece a un aumento nelle concentrazioni di anidride carbonica, bisogna ridurre il più possibile la ventilazione polmonare, cioè entrare in uno stato di ipoventilazione, che andrà così a promuovere degli stati di narcolessia (quindi nuovamente una riduzione dell’attività cerebrale).
A tal fine, nello Yoga esistono tecniche respiratorie che contemplano periodi di sospensione prolungata del respiro, tra le fasi di inspirazione ed espirazione. Per fare un esempio, nel cosiddetto samavritti pranayama, il praticante ottiene (tra le altre cose) un rallentamento delle funzioni cerebrali producendo due fasi di apnea di pari durata alle fasi di inspirazione ed espirazione (da cui il nome alternativo di respirazione quadrata, spesso attribuito a questo pranayama): una fase di ritenzione tra inspiro ed espiro e una fase di sospensione tra espiro ed inspiro. L’intero procedimento accresce la sua efficacia nella misura in cui il/la praticante, con l’esperienza, è in grado di allungare la durata di queste fasi. Da notare che l’ipercapnia essendo qui prodotta in modo graduale, l’ipoattività cerebrale viene promossa senza pericoli per la neurofisiologia del cervello.
Concludendo questo mio excursus, ho sottolineato che quando respiriamo in modo naturale il nostro corpo è già ossigenato in modo pressoché ottimale (in assenza ovviamente di disturbi fisici o psichici) e il nostro sangue mantiene un tasso di anidride carbonica al di sotto della soglia di tossicità, le cui variazioni ci consentono di regolare al meglio l’assorbimento di ossigeno a seconda delle necessità metaboliche. Quando invece promuoviamo artificialmente un allontanamento da tale condizione respiratoria naturale, possiamo facilmente promuovere una temporanea e parziale inibizione dei processi cerebrali, che potrà così favorire un accesso a funzioni cognitive associate ai nostri veicoli di manifestazione più “sottili”. Alcune delle tecniche respiratorie dello Yoga sfruttano a loro vantaggio questa possibilità insita nella nostra fisiologia (naturalmente, non si limitano solo a questo). Nel caso della respirazione circolare, l’iperventilazione induce uno stato di ipossia, mentre nella respirazione quadrata l’ipoventilazione promuove uno stato di ipercapnia. In entrambi i casi, si mette parzialmente a dormire il nostro “cervello scimmiesco” e per qualche istante possiamo prendere le distanze dal suo grande potere ipnotico, cercando al contempo (cosa non facile) di non perdere la nostra lucidità mentale.
Termino con un avvertimento. La respirazione è un processo molto complesso. Lo è sicuramente per quanto riguarda i suoi aspetti biochimici, ancora oggi non del tutto compresi. Per fare un esempio, se è vero che un’iperventilazione produce ipossia, è altresì vero che una fase di sospensione prolungata del respiro, susseguente a un ciclo di iperventilazione, è apparentemente in grado di produrre una profonda ossigenazione dei nostri tessuti. Lo si può verificare effettuando il maggiore numero possibile di flessioni subito dopo un ciclo iperventilatorio, rimanendo in apnea durante la loro esecuzione (e respirando solo se strettamente necessario). Osserveremo allora che saremo in grado di effettuare un numero di flessioni di gran lunga superiore all’abituale. Ma la complessità dei nostri processi respiratori è dovuta anche alla loro azione sui livelli più “sottili” della nostra anatomia e fisiologia. Pertanto, alterare il nostro respiro naturale, nell’ambito di pratiche molto intense che si protraggono nel tempo, è qualcosa che va fatto solo in piena conoscenza di causa, pena il rischio di creare profondi squilibri, non solo fisici ma anche energetici, emozionali e mentali. Uno strumento potente come il respiro va esplorato con molta prudenza, discernimento e consapevolezza, e inizialmente sempre con l’aiuto di praticanti più esperti. In altre parole: cum grano salis!
Grazie Massimiliano per questo appunto. Lo metto volentieri in bibliografia all’articolo e al libro sul Respiro Circolare.
Ciao Agostino, ti ringrazio per l’apprezzamento. Approfitto del tuo commento per menzionare, a complemento di quanto ho scritto nell’articolo, un altro meccanismo interessante riguardo l’apnea. La respirazione autonoma in realtà non si ferma mai, nel senso che continua anche quando una persona trattiene il respiro (a polmoni vuoti o pieni). In tal senso, lo stato di apnea sarebbe possibile unicamente tramite una contrazione continua e volontaria del muscolo del diaframma, con lo scopo per l’appunto di inibire il ciclo di contrazione e distensione del respiro automatico. Questo significa che in aggiunta al meccanismo di cui ho accennato nell’articolo, legato al tasso ematico di CO2, che superata una certa soglia genera poi quel senso di fastidio e/o di sofferenza che ci porta a riprendere la respirazione, ci sarebbe un altro “meccanismo parallelo” che ci impone di riprendere a respirare: la fatica del nostro muscolo diaframmatico, superato un determinato limite di sopportazione. Per quanto riguarda invece l’aspetto che ho menzionato alla fine dell’articolo, cioè che una fase di sospensione prolungata del respiro, susseguente a un ciclo di iperventilazione, sarebbe in grado di produrre un’immediata e profonda ossigenazione dei tessuti, questo fenomeno sarebbe sempre dovuto all’effetto Bohr, nel senso che il fatto che il rilascio di ossigeno ematico venga bloccato nella fase di iperventilazione, ne produrrebbe poi un rilascio con intensità superiore al normale nella fase di apnea, per una sorta di “effetto molla biochimico” (ma questo sarebbe un aspetto da verificare, in quanto non ho mai letto nulla di specifico a riguardo).
Ciao Massimiliano! Ho trovato molto interessante questo articolo in quanto appassionato di apnea e tecniche di respirazione in generale. Hai mai visto le pratiche del cosiddetto”ice man” – Wim Hof? Un atleta olandese famoso per aver scalato il Kilimangiaro solo in pantaloncini – per aver nuotato per una distanza elevata sotto al ghiaccio sempre solo in costume – per aver resistito per ore in una vasca piena di acqua ghiacciata riuscendo a regolare la sua produzione di calore corporea e cosi via. E’ stato studiato da più medici con risultati molto interessanti. In ogni caso lui alterna le tecniche di respirazione, la meditazione e l’esposizione all’acqua fredda per migliorare il suo sistema immunitario e potenziare la sua sensibilità a livelli di CO2 elevati. Per quanto riguarda la respirazione esegue cicli di iperventilazione seguiti da apnea prolungata e lo ripete varie volte.
Buongiorno Sig, Sassoli de Bianchi, mi chiamo Gianluca e le scrivo dalla provincia di Mantova. La ringrazio, innanzitutto, per aver condiviso la sua conoscenza e la sua esperienza in questo articolo ricchissimo di contenuti specifici e precisi ma, allo stesso tempo, molto chiaro ed esplicativo. Anch’io ho sempre avuto fino ad ora una visione errata dell’iperventilazione ma, a parte questo, vorrei porle una domanda se è possibile. Io sono un profano della meditazione ma la tematica mi ha sempre affascinato e incuriosito. Diciamo che l’ho affrontata soltanto come ho potuto: puramente dal punto di vista teorico speculativo, attraverso letture disordinate o i testi redatti negli anni da Andrea di Terlizzi. La questione che vorrei porle è la seguente: Le tecniche respiratorie sono uno strumento, un passaggio, imprescindibile per raggiungere gli stati di coscienza a cui si riferisce o esistono anche altre strade che non le contemplano ma portano agli stessi risultati? Le chiedo questo perché mi sembra esistano tecniche di meditazione basate sia sui suoni che sulle immagini. Anche in questi casi è necessario respirare in un certo modo o è sufficiente mantenere una normale respirazione? Grazie. Saluti.
Salve Gianluca. Mi fa piacere che l’articolo ti sia piaciuto. Dalla mia prospettiva, alcune tecniche respiratorie posso svolgere un ruolo importante nella pratica meditativa. Nel senso che grazie al controllo del respiro (che non deve mai creare tensioni) è possibile raggiungere con maggiore facilità degli stati di calma profonda e di concentrazione. Così come è possibile farlo, ad esempio, tramite il controllo della postura corporea e della sua immobilità (di nuovo, senza creare inutili tensioni). Ma non si tratta di qualcosa di imprescindibile. Anche se, nel corso della pratica meditativa, che promuove uno stato osservativo, la nostra attenzione/osservazione si sposterà anche sul respiro, quindi inevitabilmente questo verrà in parte guidato (è facile osservare che quando portiamo attenzione al nostro respiro, inevitabilmente in parte lo alteriamo). Detto questo, è certamente possibile praticare determinate tecniche respiratorie per produrre degli “effetti energetici” il cui scopo specifico non è quello di favorire uno stato di meditazione. È un vasto soggetto. I libri di Andrea e Antonella sono sicuramente un ottimo punto di partenza per chiarirsi le idee sulla questione. Ma come puoi immaginare, è necessario esplorare questi temi con un approccio sia teorico che pratico, altrimenti diventa assai arduo cogliere l’utilità di determinati procedimenti.
Ciao Matteo, grazie per l’apprezzamento. Sì, ho conosciuto personalmente Wim Hof e conosco bene il suo metodo, avendolo personalmente praticato. È un approccio indubbiamente interessante. In particolare, il fatto che, come tu stesso ricordi, si sia sottoposto a sperimentazione scientifica. Mi sono riproposto di scrivere qualcosa sul tema in futuro, quando ci avrò capito qualcosa in più.