La pista ciclopedonale rosso-marrone è deserta, sto camminando con passo veloce e osservo la segnaletica orizzontale di colore giallo che si estende per decine di chilometri davanti a me; lunga, dritta, con qualche saliscendi, si perde all’infinito nell’orizzonte. Attorno a me non riesco a scorgere alcun segno di vita senziente. Ho come la sensazione di essere l’unico spettatore all’interno di un quadro di De Chirico. Metafisica pura.
All’improvviso un trenino rosso, simile a quello che viaggia sulle montagne svizzere, mi supera lentamente alla mia sinistra, lo osservo incuriosito e decido di inseguirlo iniziando a correre. Dopo qualche decina di metri giungo a un incrocio e noto un ostacolo sul mio percorso, una specie di “panettone” utilizzato di solito come dissuasore di sosta. Non voglio aggirarlo e scelgo di superalo con un balzo usandolo come trampolino, ma appena appoggio il piede sinistro, lo slancio che prendo mi porta più in alto del normale e capisco che c’è qualcosa di strano.
Non cado verso il basso ma continuo a salire verso il cielo come se non ci fosse più la gravità. Dopo il primo momento di smarrimento realizzo che sto… VOLANDO! Volo, non solo in alto, ma anche in avanti, a grande velocità.
Superata la naturale paura di cadere mi rilasso, mollo le zavorre e decido di godermi il viaggio. Abbasso il capo e osservo sotto di me la verde vegetazione, sento quasi il profumo delle piante, della terra e delle placide acque di un piccolo corso d’acqua che si snoda con morbide curve tra le colture.
È una splendida giornata e il sole del mattino sta scaldando sempre di più l’aria, che avverto tiepida sul mio viso. Riesco anche a scorgere il piccolo trenino che mi aveva superato poco prima e che ormai ho raggiunto e ampiamente superato. Alzo gli occhi e sono completamente catturato dal blu profondo del cielo che mi sovrasta; solo pochi secondi purtroppo, perché intuisco che il mio volo sta finendo.
Infatti sto perdendo quota con una discreta rapidità e tutto ciò è accompagnato da un leggero timore di schiantarmi al suolo.
In realtà è come se il mio corpo sapesse già tutto. Mi ritrovo nella posizione tipica dei rapaci poco prima di atterrare: punto i piedi, la velocità magicamente si riduce come se avessi un paracadute e le mie gambe ammortizzano alla perfezione l’atterraggio senza provocare danni agli arti inferiori, limitandosi solamente a sollevare una leggera nuvoletta di polvere.
Appena tocco terra mi sveglio e capisco che era solo un sogno, ma così vivido e reale da dubitare che lo fosse.
Molti anni fa attività oniriche di questo genere erano piuttosto ricorrenti, poi più nulla, fino a questa. Nei giorni successivi, la straordinaria esperienza ha innescato una serie di riflessioni su ciò che l’essere umano pensa di essere e su cosa potrebbe essere, o diventare. Da cosa deriva questa urgenza di libertà? Si può desiderare qualcosa che già non si contiene? E allora, più che un desiderio, potrebbe essere una sorta di ricordo di quello che siamo, di ciò da cui proveniamo?
Siamo nati per essere liberi. Siamo nati per volare, volare con la mente e con il cuore. Qualcuno ce lo ha detto ma nessuno sa dirci come farlo. Gli stimoli che riceviamo dal mondo esterno ci costringono a muoverci con paura, sospetto, rancore, chiudendoci in una gabbia che è chiamata sicurezza.
Si finisce così per credere che certe cose non si possono fare, perché è pericoloso, non si è all’altezza, non si è degni, e ci si ritrova perfino a smettere di sognarle. Il risultato è un essere umano frustrato che reagisce alla vita con acidità e aggressività, oppure si spegne progressivamente giorno dopo giorno diventando una specie di automa che si muove su binari costruiti da altri, convincendosi di essere al sicuro e credendo in questo modo di evitare il rischio di soffrire, o di fallire. Una vera prigione, che definiamo vita ma che, con la Vita, quella vera, nulla ha a che fare.
Esiste una frase, attribuita a Henry David Thoreau, che mi colpì molto per la sua crudezza, la prima volta che la lessi; a mio parere sintetizza alla perfezione questo concetto:
“La maggior parte delle persone vive una vita di tranquilla disperazione e finisce nella tomba con la propria canzone ancora dentro”.
Qual è la nostra canzone? Ognuno ne ha una che è unica e preziosa, ma per mettersi a cercarla bisogna credere di possederla o perlomeno avere il coraggio di iniziare a comporla. Quanta bellezza giace all’interno di molti individui, sepolta sotto una spessa coltre di morale, pregiudizi, paure e false opinioni su sé stessi.
La maggior parte di noi vive come se dovesse esistere per sempre, ma il nostro tempo non è eterno; come lo stiamo impiegando? Lo spazio della nostra vita, come lo stiamo occupando? Facciamo quello che vorremmo fare? Diciamo tutto quello che dovremmo dire? Siamo ciò che vogliamo essere?
Arrivato a un certo punto della mia tranquilla e disperata vita mi sono messo a cercare qualcuno che sapesse “volare” e che avesse voglia di insegnarlo ad altri e, incredibilmente, l’ho trovato. Sono le stesse persone che hanno creato questo spazio che sto riempiendo con le mie piccole parole.
A distanza di molti anni non posso ancora dire di saper volare ma, di sicuro, posso affermare di essermi notevolmente alleggerito. Può sembrare una contraddizione ma per essere leggeri e volare verso l’alto bisogna prima riuscire ad andare in profondità, all’interno di sé stessi.
“Quando camminerete sulla terra dopo aver volato, guarderete il cielo perché là siete stati e là vorrete tornare.”
(Leonardo da Vinci)