LA MONTAGNA
È ormai più di un’ora che sto salendo sull’Inari, una montagna giapponese sacra agli shintoisti e ricolma di Torii (i portali rosso-arancio indicanti un ingresso ad un’area sacra), che qui sono incredibilmente ammassati a formare un vero e proprio fitto corridoio che accompagna, avvolge e ricopre buona parte del sentiero ascendente verso il Santuario, che ci aspetta sulla sommità del monte.
Dopo i primi chilometri, fortunatamente, la massa impietosa di turisti schiamazzanti inizia a diradarsi un po’, e così fa anche lo spazio tra le colonne aranciate, il che mi permette di apprezzare meglio la boscaglia tutto intorno, la quale sembra assistere silenziosa – e da tempo immemore – alla processione di umani più o meno opportuni. Dopo una stretta curva ed una leggera discesa, il sentiero mostra un’apertura sulla destra verso una sorta di piccola gola. Qualcosa attira la mia attenzione, mi fermo. Lo sguardo scorre tra i giochi di luce che dal cielo si insinuano tra gli alberi, in cui si mescolano ancora alcuni altri Torii arancioni che progressivamente, però, si diradano, lasciando a poco a poco lo spazio solo al verde scuro e vario della foresta.
Assaporo con gli occhi qualcosa che sembra sfuggire alla vista, ma che percepisco con non so quale parte di me: c’è una vita, là in fondo, che respira, pulsa…e sembra osservare. Proseguo a camminare, rimanendo – com’è mio solito nelle passeggiate in natura e in luoghi speciali – in silenzioso ascolto dell’ambiente e delle sensazioni.
Purtroppo, sembro essere tallonato da un pervicace gruppetto di turisti che, invece, non ne vogliono proprio sapere di gustarsi quel silenzio, nonostante i gentili inviti di alcuni cartelli che indicavano l’intera montagna come area sacra, richiedente il giusto atteggiamento di rispetto. A peggiorare la condizione, alcuni di questi parlavano non solo ad alta voce ma pure – ahimè – in italiano.
Continuando a camminare nel tentativo di ignorare quella che percepivo come una presenza molesta e ingombrante, unita ad una serie di commenti (che, purtroppo, non erano più solo rumori indefiniti, ma di cui comprendevo pure il senso) a dir poco imbarazzanti e inopportuni, ad un certo punto inizio ad avvertire un cambiamento interiore, chiaro, netto e quasi repentino. Improvvisamente, mi trovo a percepire come un Silenzio vivo e vibrante che avvolgeva, sosteneva e al tempo stesso si collocava oltre quel rumore.
Esternamente, lo stavo percependo nella foresta secolare e immota che, adagiata ed emergente da quella montagna sacra, sembrava come intoccata dai moti del tempo e del vociare umano, avviluppando e assorbendo – innocente e libera – ogni increspatura. Internamente, come in uno specchio, stavo vivendo la stessa percezione anche nei confronti della mia stessa mente: i pensieri reattivi e infastiditi dalle percepite molestie galleggiavano leggeri su un mare di quella che pareva Quiete Viva.
La consapevolezza, per alcuni istanti dilatati, sembrava abbracciare contemporaneamente la superficie di quel mare di Silenzio, con tutte le sue increspature, insieme a una Profondità sconosciuta, avvolgente e che pareva senza-fine.
IL LAGO
Sto passeggiando nel vialetto ghiaioso del Tenryu-ji e, anche se mi trovo appena poco dopo l’ingresso, già dai primi metri vengo avvolto dalla semplice e raffinata armonia degli spazi esterni di questo bellissimo Tempio Zen che, in quanto visita non programmata, fortunatamente si rivela essere una meravigliosa sorpresa.
Svoltata la prima curva, si apre allo sguardo il superbo giardino, che unisce e fonde con mirabile maestria una zona a secco – con la classica ghiaia chiara e pettinata – ad un’ampia area di natura viva, che a sua volta abbraccia come una delicata cornice un delizioso laghetto artificiale contornato di rocce muschiate.
Ogni tanto, una carpa colorata fa capolino sulla superficie dell’acqua, increspandola con un piccolo schiocco.
La solita fiumana di turisti – di cui anche io faccio parte – avvolge, sorpassa, schiamazza, fotografa, chiacchiera, si accartoccia, si dirada, corre, rincorre, si ferma, riparte. Turbolenta e distratta. Il mio sguardo cade su una serie di panchine prospicienti il laghetto, forse messe lì – immagino nella mia fantasia – da un monaco speranzoso in qualche invito ad una contemplazione silenziosa.
Seguendo il mio istinto, mi siedo su una di queste, incredibilmente ancora libera. E guardo.
Vedo l’acqua del lago. Uno specchio, immobile.
Rumore intorno. Acqua immota.
Trambusto. Vuoto.
E, poi, succede di nuovo.
Come in un cambio sfumato di scena in un film, inizia a farsi intensamente presente una netta percezione interiore di un Silenzio-Spazio intoccato, vivo e pieno – che al contempo percepisco come fosse la base e il fondamento di una scenografia di superficie.
All’interno quiete, spazio, apertura.
E, allora – come in un giocoso rimbalzo – il vociare scomposto delle persone, le carpe che, guizzanti e inconsapevoli, rompono la superficie dell’acqua e i miei pensieri disordinati sono un’unica cosa. E, allora, quel mare di Silenzio vivido emergente nelle pieghe dello spazio intorno a me, la calma di quel lago prima e oltre ogni increspatura e la quieta spaziosità della mente al di là dei pensieri, sono un’unica cosa.
L’ALBA
Apro gli occhi, in un letto che non è il mio. Ospite a casa di amici, ho dormito lì per essere più vicino e pronto alla giornata – difficile – che mi aspetta. Mi sono svegliato prima del solito, senza sveglia, e ammiro, ancora sdraiato, la luce mattutina che inonda la sala in cui mi trovo. Oltre la vetrata delle finestre, intravedo le colline che incorniciano l’orizzonte in lontananza e, fluttuando ancora un po’ nel dormiveglia, percepisco che qualcos’altro sta filtrando, oltre quella luce solare.
Proprio lì, in mezzo a preoccupazioni e sofferenze emotive che avevano caratterizzato quelle ultime settimane, sul limitare di quella mattina che una parte di me avrebbe tanto preferito rimandare all’infinito, si stavano aprendo nella mia coscienza improvvisi squarci, attraverso cui si riversava una inaspettata sensazione di Bellezza diffusa, acuta e che pareva pervadesse e animasse tutto, oltre le superfici su cui si posava il mio sguardo.
Come doni inattesi – senza nome, senza invito – eppure così reali, vividi e preziosi, questi attimi di Bellezza infuocata hanno portato ben altra luce a quel giorno, e sussurrato, come una insperata benedizione, la presenza di un brillante e profondo mistero, dietro la soglia dell’ordinario.
POSTILLA MAGICA
Dietro al Tempio delle Mille Lanterne, il Kasuga Taisha a Nara, quasi nascosto alla vista, c’è un Torii. Essendo un tempio Shintoista ciò non parrebbe nulla di particolarmente eclatante e, certamente, dopo averne visti letteralmente migliaia in pochi giorni, sarebbe potuto facilmente passare quasi inosservato.
Eppure, forse per caso, forse seguendo un qualche richiamo sottile, mi sono incamminato per il fianco esterno del tempio, percorso da pochi altri turisti, fino ad arrivare ad un angolo semi nascosto che dava sul retro.
Qui, il portale in legno rosso-arancio si apriva su una porzione della fitta vegetazione che circondava tutto il complesso. Un cartello indicava la presenza di un bosco sacro il cui ingresso era precluso ai visitatori e poteva essere varcato solo da preti shintoisti che vi entravano per i loro rituali di contatto con gli spiriti del luogo.
Ricordo di essermi fermato di fronte a questo portale e di aver percepito – in modo appena accennato – come se dietro a questo passaggio si celasse un qualcosa di impercettibilmente differente, un “oltre” invisibile agli occhi fisici, eppure presente.
Non so sinceramente dire con certezza se, in questo caso, le credenze autoctone hanno in qualche modo suggestionato la mia mente, ma oggi, dopo aver sperimentato altre “gocce di Silenzio”, una cosa posso affermarla: esiste uno Spazio Vivo e differente che sta sotto, dietro, oltre il vissuto consueto. E, per quanto esoticamente bello, non è certo necessario un Torii per percepirlo.