Un dialogo afantasico

Introduzione di Andrea Di Terlizzi

Lo so, è un articolo lunghissimo secondo gli standard di questi tempi, ma è anche molto interessante, oltre che utile e a tratti divertente. L’argomento di cui si parla potrà forse interessare più persone di quanto si pensi e perfino qualcuno che leggendo scoprirà qualcosa che ignorava sul suo modo di immaginare, pensare e ricordare.
Le motivazioni che possono portare alla “problematica” che tratta questo articolo non hanno grande relazione con ciò che gli studi al riguardo affermano; almeno, non per quanto concerne l’uso dell’immaginazione applicata a tecniche interiori. Ma questa… è un’altra storia. Se dovesse rivelarsi un argomento che interessa più persone, potremmo magari approfondirlo sotto il profilo pratico.

Premessa di Massimiliano

Al ritiro di pratica “Eremos 2021”, guidato da Andrea Di Terlizzi e Antonella Spotti, abbiamo esplorato, tra le altre cose, alcune pratiche di visualizzazione. Durante l’aula teorica è emersa (o forse dovrei dire, è riemersa) la questione della difficoltà di alcuni praticanti nel produrre delle visualizzazioni effettive.
Chi era presente ricorderà che nel corso della conversazione, dove sono stati offerti numerosi spunti di riflessione, sono brevemente intervenuto spiegando che esiste un termine tecnico per descrivere questa condizione di difficoltà (o di incapacità per alcuni) nel creare immagini mentali. Il termine in questione è stato coniato nel 2015 da Adam Zeman e collaboratori: afantasia (aphantasia, in inglese), dove la “a” è privativa.
Sia ben chiaro, i disturbi nella generazione di immagini erano già noti da tempo, ma si riteneva che fossero soprattutto causati da danni cerebrali. Nel 2010, Zeman e collaboratori hanno ad esempio riportato un caso particolarmente significativo di un tale disturbo, in un uomo di 65 anni, che era divenuto incapace di produrre immagini mentali a seguito di un’angioplastica coronarica.
Fu proprio quando fu pubblicata una versione divulgativa del loro articolo che accadde qualcosa di inaspettato: gli autori furono contattati da oltre venti persone che si erano riconosciute nell’esatta descrizione di quello che sperimentava quell’uomo, ma con un’importante differenza: la loro “cecità mentale” non era dovuta a un’operazione chirurgica, o altro evento traumatico, ne erano semplicemente “affette” sin dalla nascita.

Zeman e collaboratori si misero allora a studiare questo fenomeno più attentamente (tramite specifici questionari, il cui scopo era comprendere meglio cosa vivessero esattamente le persone); fenomeno che poi battezzarono, per l’appunto, afantasia.
Si stima che circa i1 3% delle persone siano afantasiche (esiste però una scala, non tutti lo sono allo stesso grado) e si ritiene anche che esistano dei correlati neuronali corrispondenti a questa condizione, anche se al momento non sono stati identificati.
Ora, è proprio quando nel 2015 Adam Zeman e collaboratori cominciarono a parlare di afantasia, e che la notizia cominciò a diffondersi, che a mia volta appresi della cosa, grazie elle potenti sincronicità che è in grado di regalarci il Web. Non avevo ancora pienamente realizzato che ne ero a mia volta fortemente affetto, ma la cosa mi divenne totalmente chiara (una chiarezza priva di immagini!) quando nel 2016 ebbi un’interessante conversazione, via Messenger, con Valentina Corvi, un’amica di tastiera, di cui riporto qui di seguito un frammento.
Per chi è interessato ad approfondire l’argomento, segnalo che esiste online un’intera community di afantasici: https://aphantasia.com. Un breve video che illustra bene la condizione dell’afantasia è ad esempio il seguente: https://youtu.be/Xa84hA3OsHU.

Massimiliano

Frammento di un dialogo tra Valentina Corvi e Massimiliano Sassoli de Bianchi, Messenger, aprile 2016

Valentina: […] Non ci posso credere di aver scaricato una app di ipnosi, io che sono incapace di visualizzare. Non ho mai manco capito come fate tutti voi a contare le pecore, come diavolo fate a vedere le cose con la mente, per me è un mistero. Io se chiudo gli occhi e immagino, vedo solo nero e sfumature di colori strani (che hanno tutto a che vedere con il nervo ottico e nulla con l’immaginazione).

Massimiliano invia a Valentina alcuni link che illustrano la condizione nota con il nome di “afantasia”. Dopodiché, Valentina risponde così:

Valentina: Cosa mi hai fatto scoprire! Non ne avevo idea. Ero certissima di essere normalissima io, credevo che poter vedere le cose a occhi chiusi fosse come, che ne so, essere bionde o brune o rosse, sì, pensavo che almeno la metà delle persone sul pianeta fosse come me.
Soffro di afantasia? Io? È da che ho tre ore di vita che la gente mi dice “mazza che fantasia che c’hai…”, e soffro di afantasia?! Sono proprio una donna ossimoro io.
Il tipo del video che mi hai linkato, è esattissimo, io sono esattissimamente come lui, anch’io non ho idea di cosa voglia dire vedere le cose con la mente, ma non l’ho mai percepito come un problema, o peggio, come una disabilità.
Pur’io ho scoperto ‘sta cosa con le pecore invisibili. […] Ho sempre pensato che chi “vede con la mente” usasse il termine “vedere” in senso più o meno metaforico. Sì, ho sempre pensato che chi “vede le pecore” non è che proprio le vede, piuttosto le riesce a pensare in un modo tale da poterle contare, mentre io le penso allo stesso modo, ma non le riesco a contare.
Io posso pensare benissimo a 3 o 5, o 16 pecore, se le penso sono 3, o 5, o 16, solo che non le posso contare una a una, ma sempre 3, o 5, o 16 le pecore so’.

Se mi dici “Immaginati di stare su un atollo con i ghepardi accucciati accanto a te”, io ti rispondo “Wow, che paradiso, mi piacerebbe da impazzire”, so benissimo come sarebbe, cosa proverei, e so “immaginare” sia un mare color smeraldo, la sabbia bianca, e 30 ghepardi, perché so benissimo com’è fatto quel mare e quella sabbia e soprattutto come sono fatti i ghepardi, solo che non li vedo.
Infatti, io sono refrattaria a qualunque forma di ipnosi. In Francia c’era un dentista incredibile, i miei amici francesi andavano e vanno tutti da lui, non gli fa l’anestesia perché li ipnotizza. Quando sono andata io perché mi si era scheggiato un dente, ha provato a ipnotizzarmi e dopo mezzora mi ha fatto una dose di lidocaina che avrebbe steso un pachiderma.
Continuava a dirmi: “Immagina di stare in un posto che ami da morire”, e io, anche sapendo di non saperlo fare, ho chiuso gli occhi e mi sono sforzata di pensare di stare a casa mia, ma vedevo tutto nero e sapevo benissimo di stare sulla poltrona di un dentista.
Sulla parete aveva appesa una grossa foto di dune del deserto, ho provato a fissarla cercando di “immaginarmi” di stare in uno dei deserti dove davvero sono stata in passato, ma niente, le uniche dune che potevo vedere erano quelle della foto.

Boh, mi sento come se avessi scoperto che avete tutti un computer Apple in testa mentre io c’ho un Commodore 64, o meglio, un frullatore o un’aspirapolvere.
Comunque, dopo aver letto l’articolo… m’è venuta la depressione. Ho letto che “gli afantasici pensano che chi parla di immagini mentali, parli metaforicamente…”, esattamente quello che ti ho scritto tre minuti fa. Ho tutti i sintomi.
L’unica cosa che mi dispiace, che m’è sempre dispiaciuta, è non poter “rivedere” le persone e gli animali che sono morti. Io mio padre o mia madre o le mie nonne o mia nipote, i miei amici o i miei animali morti, non li riesco a “rivedere” chiudendo gli occhi e pensandoli. Devo aspettare di avere il culo di sognarli la notte.
Ora che ci penso, forse il fatto che non riesco a riconoscere mai una faccia, che non so ritrovare mai una strada o un posto, è legato a questo. Nel mio paesetto vivranno una sessantina di persone, dopo 16 anni li dovrei conoscere tutti a menadito, pure se non li frequento, eppure se Marco dice “Settimio” io non ho idea di chi sia. Deve dirmi “Settimio, quello a cui hanno levato la patente e che va al bar col trattore”.
Io senza navigatore non so arrivare da nessuna parte, posso aver fatto una strada 10 volte, e la undicesima è sempre la prima volta che vedo quella strada, quei palazzi, quegli alberi… a Roma a memoria so andare solo a casa mia, in ufficio da papà, a casa di papà, da mia sorella e ora dalla mia migliore amica. C’ho messo due anni a imparare la strada per andare nella sua nuova casa. Ancora non so andare da mio fratello senza navigatore (e vive a 6 minuti da casa di mia sorella).
Se imparo una strada, se solo svolto una traversa sbagliata, mi ritrovo a Tokyo.

Ho un “nuovo avvocato”, sono andata da lui già 9 volte. Sia guidando io la moto sia in taxi. Ancora non ci so andare senza sbagliare e “annà pe’ campi”. E sì che non devo far altro che prendere via Nomentana, che è la stessa via che prendo da casa mia per andare sia da mia sorella che da mio fratello […]. A un certo punto devo girare a destra […]. Su via Nomentana ci sono quasi solo palazzi d’epoca e il mio punto di riferimento è: “Quando vedi un palazzo [moderno] che non ti piace, gira a sinistra”, solo che non riesco mai a ricordarmi com’è fatto il palazzo, ce ne sono pochissimi di palazzi moderni su quel tratto di via Nomentana, una media di 4 su 40 fai conto, io però non so mai quale dei 4 è.
Qui a casa mia [una casa in aperta campagna], se solo non faccio una delle tre uniche strade che conosco, devo chiamare Marco per dirgli cosa vedo intorno a me e farmi dire dove cazzo sto e come fare a tornare a casa. Quando sono in macchina con lui, resto esterrefatta, fa delle strade per cui sono in un posto, poi lui fa una strada che secondo me non ho mai visto, e mi fa spuntare in un altro posto che conosco, e io: “come cazzo è possibile che stiamo qui scusa? […] Mi sembra sempre che mi faccia passare attraverso dei tunnel spaziotemporali capaci di appiccicare due posti lontani fra loro, eppure lui fa 500 metri.

Non faccio che salutare gente che non conosco perché convinta di riconoscerla e non cagare gente che dovrei salutare e che mi saluta non capendo perché io li guardo senza nemmeno sorridere… a quel punto sparo che ero soprappensiero e li saluto manco fossero i miei migliori amici e poi chiedo a Marco: “Ma chi cazzo è?!” e lui: “È il cognato della Claudia, quello che vive lì, l’hai visto seimila volte, ti ha anche regalato la piantina di lamponi selvatici lo scorso anno”.
Quando muore qualcuno, al bar la Paola mi dice “È morto il figlio della Norina” e tutto il bar “Nooooo, poretti noi, era così giovane…” e io “Marco, chicazz’è il figlio della Norina?”. Lui ormai manco mi risponde più, tanto lo sa che pure se prova a spiegarmelo, io non so di chi parla. La domenica a pranzo dalla mamma di Marco, tutti parlano di tutto e quando mi fanno “Hai presente Fabrizio, il marito della Roberta?” Prima ancora che io risponda, Marco interviene “No, non ha presente, inutile che cercate di spiegarglielo, tanto non ce la fa”.
Nelle feste comandate, come il giorno della madonna, l’8 dicembre se non sbaglio, a pranzo da Marco viene tutta la famiglia, cugini compresi. Io li vedo solo quel giorno, ma sono 16 anni che li vedo… be’, sto appiccicata a Marco perché così lui mi dice chi è chi e come si chiama, e io riesco a limitare le figure di merda.
Sai, ho sempre verificato di essere parecchio più intelligente della media. “Intelligente” insieme a “bella” sono i due aggettivi che da sempre tutti usano per descrivermi, da sempre. E quindi ho sempre escluso di avere un organo difettoso fra le orecchie. Ho sempre pensato il contrario, ho sempre pensato, matematica esclusa, che il mio cervello fosse migliore di quello degli altri. E invece scopro che è peggiore della maggior parte della gente.
Per le puttanate filosofiche funziona da dio, per le cose pratiche è ‘no scaldabagno a neuroni. È come avere una Ferrari col motore di una Punto.
Tra l’altro, ho scritto una mail a Adam Zeman, il neurologo che ha studiato ‘sta cosa. Perché la voglio capire bene alla fonte ‘sta storia!

Massimiliano: Ciao Valentina, ora capisco perché, come per me, le descrizioni stilistiche nei romanzi non ti allettano per nulla. Ok, ti do una notizia, per tirarti un po’ su il morale, tieniti forte: sono “portatore sano di afantasia pure io”! Siamo come Daredevil (un personaggio della Marvel rimasto cieco da bambino, detto l’uomo senza paura, ok, nel tuo caso quasi), ma in versione mentale. Dobbiamo usare meglio gli altri “sensi mentali”, perché la visualizzazione non funziona per noi come per la maggior parte delle persone.
Ora però, devi pensare a questa condizione come a qualcosa “su una scala”, non è un bianco o un nero. Magari la mia afantasia è meno forte della tua, non so dirti, e non sono sicuro che sia nemmeno facile misurarla. Ad esempio, nelle pratiche meditative, per me visualizzare è sempre stato quasi impossibile; quando facevo pratiche retrocognitive, tutti (nel gruppetto di quasi-sciamani in cui ai tempi praticavo queste cose) si ritrovavano in ambientazioni specifiche, che vedevano anche a colori, io invece mi ritrovavo sempre in un limbo nero, percorso da correnti elettriche violette, percepivo sempre delle presenze, ma non potevo usare la vista per apprezzare dove realmente mi trovavo (chi guidava mi diceva: tu ti trovi sempre “tra i maestri”, ed in un certo senso probabilmente era vero, perché in quell’oscurità percepivo sempre molta pace).

Per le facce, a dire il vero sono fisionomista, ma non nel modo usale, nel senso che per me è sempre chiarissimo se una persona la conosco o meno, quanto poi a sapere chi realmente sia, dove l’ho conosciuta, o ricordare il suo nome, è tutta un’altra storia. Quello che mi capita, è che pur sapendo di conoscere quella persona, se la incontro non nel suo contesto abituale, allora può essere che pur sapendo di conoscerla non sappia più chi sia.
Una delle mie caratteristiche ad esempio (che col tempo cerco di correggere, ma nemmeno troppo), è che quando una persona si presenta per la prima volta, e dice il suo nome, io non lo registro. Questo perché, ho capito col tempo, nel momento dell’incontro sono sempre “focalizzato su un altro livello”, forse proprio perché, non potendo dare per scontata la “rievocazione visiva”, sono concentrato a percepire la persona con gli altri sensi/parasensi.
Per cercare le strade, sono come te, non c’è verso, anche un posto in cui vado da anni, sono capace di fare la strada sbagliata lo stesso, o quasi perdermi. Ma siccome parto sempre molto in anticipo, quando vado a un appuntamento (un modo inconscio per compensare?), alla fine me la cavo sempre. Pensa che ero sposato con un’iperfantasica, cioè una persona con una capacità di visualizzazione uguale a quando guardi qualcosa con gli occhi fisici, quindi, in un certo senso, l’opposto dell’afantasia, puoi immaginarti le scenette.

Comunque, penso che la questione non sia necessariamente che non vediamo le immagini mentali, magari le vediamo, ma non consapevolmente. Nel senso che le immagini si formano, e creano un contesto, e questo contesto colora le nostre susseguenti elaborazioni mentali, ma non in modo consapevole. È un dato semplicemente che non “vediamo” coscientemente.
Puoi fare l’esercizio semplice di visualizzare una mela (fai come se). Poi chiediti, e risponditi senza esitare: di che colore è? Se riesci a dare una risposta, cioè a dire se è verde o rossa, ad esempio, forse è proprio perché mentalmente un colore lo “vedi”, anche se non lo vedi consapevolmente. Anche perché i colori sono anche concetti, quindi è possibile interagire col concetto senza che l’interazione sia di tipo visivo.
L’altra possibilità è che la mela che crei mentalmente sia una mela che non ha ancora la proprietà di avere un colore. Il colore, semplicemente, viene scelto (ma non visualizzato) nel momento stesso in cui ti viene posta la domanda. È un po’ come con il collasso della funzione d’onda quantistica, nei processi di misura quantistica.

Detto questo, io non percepisco la mia afantasia come un handicap, ma come un modo che mi ha regalato questa mia tuta intrafisica di posare “uno sguardo” non ordinario sul reale, e sulle persone. Tra l’altro, uno dei vantaggi, per me se non altro, di questa condizione, è che riduce notevolmente la capacità di memorizzare i dettagli. Per questo, tecnicamente parlando, la mia memoria è scarsa, quando si tratta di ricordare cose molte specifiche (a scuola studiavo tutto all’ultimo momento, poi felicemente dimenticavo tutto quello che avevo studiato).
D’altra parte, “sento” le persone, o ricordo le situazioni, con una sorta di “percezione all’ingrosso”, che spesso mi permette di catturare ciò che è realmente rilevante.
Ah, un’ultima cosa, quando ero a liceo, facevo ripetizioni di matematica. Poi sono diventato fisico teorico, per amore della fisica. Ottima capacità di compensazione mentale, non trovi? Per certe cose sono cieco, per altre la mia visione è decisamente penetrante; basta imparare, piano piano, a conoscersi meglio. Insomma, benvenuta nel club!

Valentina: Ah, ok, se pure tu sei mentalmente ciecato, mi conforta un casino; non potevi darmi notizia migliore. Io sto messa peggissimo di te, ma credo che abbiamo lo stesso “disturbo”. Si tratta di percorsi neuronali immagino. Io evidentemente ho più “strade senza uscita” di te. Nel senso che sono completamente stupida in matematica da sempre, mentre tu evidentemente hai quella strada ancora aperta. O forse la matematica non c’entra nulla, sì, il calcolo a naso non è legato alle immagini. Mentre sono certa che strade, facce e visualizzazione siano fra loro molto legate.
Sì, anch’io arrivo puntualissima ovunque e da sempre, mi conosco ed esco sempre con larghissimo anticipo quando devo andare da sola nei posti. Facce e nomi… io non registro né l’uno né l’altro, mai, ma le due cose sono interconnesse, se fossimo in grado di registrare al volo le facce, resterebbero registrati anche i nomi perché il cervello assocerebbe la parola/nome all’immagine/faccia, e viceversa.

Anch’io studiavo tutto all’ultimo secondo e poi mi scordavo tutto. Mi succede ancora, io nella memoria ho un milionesimo dei concetti che ho imparato. Se mi ricordassi anche solo un quinto di quello che ho studiato e letto, sarei onnisciente circa i 5 argomenti che m’interessano, eppure mi ricordo solo a grandi linee le cose. Tomi e tomi e tomi di antropologia, fisica, astrofisica, evoluzionismo, biologia, neurologia, medicina e archeologia letti “inutilmente”.
Come idea, se mi chiedessi gli ominidi, chi è venuto prima o dopo, mi ricordo solo che Cro-Magnon visse nel paleolitico superiore e i Neandertal nel medio… tutti gli altri, sia i Sapiens che quelli venuti prima, boh, si potrebbero essere estinti ieri per quel che mi ricordo.
Sì, c’è un aspetto per me tremendamente positivo in tutto ciò. E se ci penso, è una benedizione che il mio cervello registri solo certe cose e altre no. Ho avuto una vita costellata di vicende tremende, degne di un film dell’orrore […] eppure… non mi ricordo nulla! È come se i miei numerosi anni di violenze siano successe a qualcun altro.

Da piccoletta, quando vivevo dagli psichiatri a causa di queste violenze, dicevano tutti che era impossibile che sarei diventata una persona sana e soprattutto serena, gente col passato come il mio diventa serial killer, pedofilo, eccetera. E forse se il mio cervello avesse registrato tutto, lo sarei diventata. E invece ho sempre provato un incredibile distacco verso ognuno di questi eventi, nessuno escluso. Mai sognata una delle torture subite, mai sognata una violenza fisica o psicologica, mai rivisto un’immagine brutta, mai.
Ok, mi sono fatta 15 anni di anoressia, ma è come dire che cadi dal quinto piano di un palazzo e ti spezzi un’unghia. Quindi, vivaddio che non ricordo nulla! […] Con ogni probabilità “l’oblio” è stato un meccanismo di difesa che ho inconsciamente attuato a 5 anni e usato per gli anni a venire. Tutte le cose brutte, erano tremendamente brutte mentre succedevano, ma passata la tempesta, per me è sempre stato impossibile ricordarmene, e quindi i vari eventi traumatici non si sono mai potuti sommare uno sull’altro.
Resta il fatto che dovrebbe essere davvero fico poter avere la realtà virtuale integrata, ma conoscendo come funziona il cervello, so che è impossibile riuscire a sviluppare una facoltà come questa, perché non dipende dalla volontà o dall’esercizio, dipende dai percorsi neurali, e se per andare da A a B, il percorso non c’è, non c’è e basta, e mai ci sarà.
Ma, in effetti, se la capacità di visualizzare mi costasse il dover rivedere e quindi rivivere i miei primi 24 anni, tutta la vita scelgo il mio bel cervelletto handicappato!

Massimiliano: Non puoi essere completamente stupida in matematica, per una ragione molto semplice: sei in grado di ragionare, in modo coerente e logico-razionale. Quindi, non c’è nessuna ragione per cui tu non possa, in linea di principio, diventare brava in matematica. Semplicemente, non hai avuto bisogno di trovare un modo creativo di bypassare la tua difficoltà a visualizzare gli enti matematici, e le loro relazioni, usando altri percorsi cognitivi.
La cosa ha poco o nulla a che fare con il “saper contare con i numeri”, o cose di questo genere. Io, ad esempio, sono del tutto negato a “far di calcolo”. Non ho mai nemmeno imparato le tabelline. Ho sempre guardato alcuni giganti del passato, come Feynman, von Neumann, ecc., ma anche, più semplicemente, la più parte dei miei colleghi fisico-matematici, capaci di fare di calcolo mentalmente in modo per me prodigioso, come delle “bestie aliene”.

Ho anche notato che sebbene le cose certamente io le capivo, per farlo avevo sempre bisogno di più tempo dei miei colleghi. Poi magari a volte le capivo meglio, o le guardavo da una prospettiva differente.
Mi ricordo ancora di un esame universitario (fisica dello stato solido), dove il professore, entusiasta, alla fine dell’esame, mi dice: “Sa, è la prima volta che durante un esame imparo qualcosa di nuovo!” Io non ho mai capito che cosa gli avevo spiegato che lui, dopo anni che dava quel corso, non aveva ancora mai “capito-visto”, ma ho comunque intascato con piacere il suo pieno voto.
Un personaggio che mi ha sempre rassicurato è Einstein, perché l’ho sempre immaginato ‘lento’, e infatti sono famose le sue uscite, quando chiedeva ai colleghi di rispiegare tutto più lentamente, altrimenti non capiva […].

Le entità teorico-matematiche io non le vedo, a meno che non siano stese sulla carta, e quando devo ragionare, mentalmente, è più un percepire la loro presenza. È un vedere senza vedere. Semplicemente, decido che lì, nella mia mente, c’è, diciamo, un triangolo, e anche se non lo vedo, è lì perché così ho deciso. Poi, se decido di muoverlo, diciamo di ruotarlo, anche se non lo vedo muoversi, lo fa, perché di nuovo così ho deciso. O qualcosa del genere.
Ovviamente, se le cose si fanno troppo complesse, carta e matita diventano necessarie. Poi, esiste il “ragionamento algebrico”, che non necessita una vera e propria visualizzazione, e molti enti teorici comunque, proprio perché multidimensionali, non sono comunque visualizzabili, nemmeno da chi è “affetto” da iperfantasia.

Un’altra cosa che ho osservato è che la mia capacità di riflettere in modo astratto si accresce se cammino, cioè se il mio corpo si muove. Per questo quando sono bloccato su un problema teorico (ma non solo), vado fare una passeggiata, e al ritorno sono pieno di nuove intuizioni su come proseguire. Ho l’impressione che l’afantasia diminuisca quando il corpo si muove, ma dovrei verificare la cosa più attentamente.
Per il resto, sì, ricordare troppo può anche essere una condanna in certi casi. Non mi sono mai chiesto se nel mio caso mi ha aiutato ad avere un maggiore distacco dalle difficoltà. Intendiamoci, ho sempre posseduto una “forte autocoscienza”, sin da piccolo, cioè una capacità a guardarmi sempre dal di fuori, in ogni situazione, e trovare sempre in me uno scoglio interiore stabile, che nessuna tempesta esteriore è mai stata in grado di smuovere (fino ad oggi). Con sorpresa, andando avanti nella vita, mi sono accorto che così non era per tutti.
Ma a parte questo, non mi sono mai chiesto se la mia scarsezza di ricordi, legata immagino alla questione dell’afantasia, mi ha dato un aiuto in più, a tirarmi fuori da certe “trappole mentali”. […] A questo punto, mi sorge una domanda, che lascio aperta alla tua/nostra riflessione. Potrebbe essere che l’afantasia sia una condizione (come altre condizioni) che la coscienza in incarnazione è in grado di promuovere, magari in fase di formazione del feto, alfine di ottenere un vantaggio (e non uno svantaggio) adattativo, sapendo in che situazioni andrà poi a trovarsi nel corso della vita, o sapendo che questa apparente “difficoltà” la obbligherà ad usare altri “canali sensorio-percettivi”, per lei più produttivi, evolutivamente parlando?

Valentina: È molto probabile che l’afantasia sia uno step evolutivo. Intanto perché non costituisce un problema (tant’è che chi ne soffre nemmeno lo sa), eppoi, anche per un altro motivo strampalato, ovvero: […] quando mia madre è morta, mia nonna è stata malissimissimissimo […] Lei da sempre si dilettava in pratiche paranormali, si incontrava ogni settimana con un gruppo di medium molto seri e qualificati, nulla a che vedere con i maghi stile Mago Otelma, erano studiosi, Paola Giovetti… ricordo questo nome… insomma, mia nonna era una donna molto colta e razionale, per quanto credente, era di natura scettica e pragmatica.

Dopo la morte di mia madre, per due anni ha praticato la scrittura automatica. Si metteva nella stanza gialla in fondo alla sua casa, la stanza dove ascoltava le sue sinfonie o giocava a canasta o bridge con le amiche, apriva uno dei suoi quadernoni, impugnava la penna o uno dei pennarelli, si concentrava e la mano attaccava a scrivere da sola.
Ho ancora tutti quei quadernoni. Solo molti anni dopo mi raccontò questa storia e mi face vedere i quadernoni, ero già maggiorenne fai conto. Adesso io non ti so dire se davvero lei parlava con mamma e gli altri due o tre morti con cui “scriveva”, o era il suo inconscio o metacoscienza o vallasapé, ma è certo che non fosse lei a scrivere, coscientemente dico. Sia perché la calligrafia è completamente diversa da quella di mia nonna, ma soprattutto perché mia nonna era una sega incredibile a disegnare, non era in grado di disegnare manco una casetta, e quei quadernoni sono pieni zeppi di disegni incredibili che lei nemmeno fosse rinata dieci volte dentro il corpo di Raffaello sarebbe stata in grado di fare.
Per altro nei quadernoni c’è scritto cosa accade dopo la morte, ed è qualcosa che mia nonna non solo non avrebbe mai potuto scrivere, ma andava completamente contro il suo credo di cattolica integralista. Si parla di reincarnazione e di milioni di mondi paralleli, due concetti anni luce lontani dal credo di mia nonna.

Chiaramente nei quadernoni ci sono una serie di pagine dedicate a me, in realtà molto poche, ci saranno 10 pagine in tutto su 6 o 7 quadernoni (devo dire che un po’ all’epoca mi offesi, se io morissi e comunicassi con qualcuno qui, parlerei solo dei miei figli, delle mie nipoti e dei miei animali…) ma il punto è che quelle comunicazioni avevano lo scopo di curare mia nonna dal suo dolore immenso, e in effetti di me c’era poco da dire.
E se anche mentre nonna scriveva, cinque piani sopra io subivo ogni sorta di abuso […], con ogni probabilità mia madre sapeva che per quanto apparentemente atroce, io non solo dovevo passare attraverso quelle storie ma soprattutto sapeva che me la sarei cavata alla grande, e quindi non una parola sugli abusi subiti sta in quei quadernoni […].
Ad ogni modo, io reagii in un modo assai strano quando mi madre morì, non sto a raccontarti, vai a sapere che mi passava per la testa, avevo solo 6 anni, e evidentemente ero incazzatissima con lei, perché pensavo che il suo stare in clinica era una sua scelta, e perché a casa mi martoriavano […].

Tutto questo per dire cosa? Che la nonna un giorno, mentre stava praticando la scrittura automatica, chiese a mia madre per quale dannato motivo io stessi reagendo a quel modo. Nessuno se lo spiegava, era assurdo, ero attaccatissima a mia madre, non aveva senso quell’atteggiamento, e quindi nonna sperava di riuscire a capirlo con la scrittura automatica.
La risposta fu: “Valentina è un’anima molto molto antica ed è molto più forte di tutti voi perché anche se la sua mente di bambina non ne è cosciente, sa cose che voi non potete sapere. Mamma non ti preoccupare per lei, quello che ai tuoi occhi è assurdo è invece giusto. Se le vostre anime fossero antiche come la sua, anche voi reagireste come lei. Crescerà sana e molto buona e fra qualche anno lo capirai”.
Questa, letteralmente, è stata la “risposta di mia madre”. Ora, per ricollegarmi a quello che dicevi tu, stando a quanto ti ho appena scritto, posto che si voglia dar credito ai quadernoni di mia nonna, ci sta che l’afantasia sia un tratto evolutivo. Perché io non solo soffro da sempre di afantasia, ma a 6 anni ho letteralmente cancellato mia madre senza manco aspettare che morisse, ovvero non mi sono limitata a rimuovere l’immaginazione, ma ho rimosso chirurgicamente una fetta di realtà. E a “detta di un’anima trapassata” quello era l’atteggiamento giusto.

Ora, io purtroppo prediligo il raziocinio ai racconti e pure ai quadernoni di mia nonna. Mi vedo vivere nell’ansia che i miei animali muoiano o soffrano o che le mie nipoti si strozzino, di universalmente evoluto in me non vedo proprio nulla, anzi. Ma stando alle esperienze paranormali di mia nonna, si direbbe proprio che l’afantasia non sia un handicap ma una sana capacità di distaccamento da qualcosa che con ogni probabilità non è reale né utile quanto possa sembrare.
Riferito a te, a naso, direi che nel tuo cammino, nei tuoi trip spirituali, probabilmente a te non serve visualizzare e immaginare mentre mediti come invece serve a chi è meno evoluto di te. Forse l’immaginazione è come le rotelle della bici che si mettono ai bambini che una volta imparato ad andare in bicicletta, non ne hanno più bisogno e quindi le tolgono. Non lo so, ha senso.

Massimiliano: L’immaginazione visiva è per certi versi una stampella. Quando muovi un braccio, lo muovi e basta. Non cerchi di muoverlo visualizzando prima la cosa (cioè immaginando di muoverlo): semplicemente, lo fai. Quando cerchi di muovere le “energie/sostanze” più sottili (supponi per un momento che esistano, come è il caso) è la stessa cosa: visualizzare di farlo può essere un aiuto all’inizio, ma arriva il momento in cui bisogna smettere di “visualizzare di muovere l’energia” e semplicemente cominciare a muoverla, direttamente.
Le cose sono un po’ più complesse di come le sto dicendo ora, ma quindi sì, quello che dici è in parte giusto: a un certo punto non bisogna più visualizzare, ma fare/agire, direttamente. Se dico che le cose sono un po’ più complesse è perché quando non vediamo con gli occhi fisici, o non tocchiamo col tatto fisico, ecc., è difficile sapere se stiamo agendo oppure semplicemente immaginando di agire, quindi, l’immaginazione, all’inizio, può essere un aiuto, ma solo all’inizio.

Altrimenti, la storia di tua nonna è molto interessante, e sì, Paola Giovetti è una nota parapsicologa italiana. Che tu sia un’anima antica, non ho dubbi. Antico però non vuol dire non-incasinato. Conosco molte anime antiche che si cimentano in strani equilibrismi mentali, per giustificare la loro condizione, senza rinunciare al loro “status” di “antico-evoluto” (non sto alludendo al fatto che questo sia il tuo caso).
Il problema è che l’antichità porta con sé, oltre all’esperienza, anche dei bagagli a volte pesanti. Molte anime antiche hanno (secondo la mia prospettiva) accumulato enormi talenti, enormi capacità, enormi sensibilità, enormi comprensioni… insomma, enormi risorse, già tutte facilmente fruibili, ma, al contempo, possono aver accumulato anche enormi zavorre. Quando lasciano andare le zavorre, ecco che possono sfruttare appieno tutto quello che hanno acquisito di reale lungo il loro lungo cammino, e passare, se così si può dire, alla marcia superiore.
Per dirla in altri termini, c’è un passaggio in cui la coscienza comincia a volgere il suo sguardo all’umanità nel suo assieme (quell’umanità che ami tanto, senza saperlo), liberandosi quasi di colpo dai diversi legami gruppo-karmici, ormai inutili per la sua futura evoluzione.
L’afantasia, in tal senso, può essere non tanto uno step evolutivo in quanto tale (nel senso che non credo che le coscienze future, più avanzate, abiteranno in corpi afantasici), ma una strategia legata a una specifica incarnazione. Un modo per non essere schiacciati dall’evocazione continua di situazioni potenzialmente traumatiche, consentendo così alla coscienza di restare più sgombra e guardare in un’altra direzione. Quale? Quella del proprio “compito” evolutivo. Una direzione dove i talenti reali vengono massimizzati e messi al servizio della propria e altrui evoluzione.

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